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Anche le assicurazioni italiane si stanno avvicinando gradualmente al private capital, in un momento in cui i mercati tradizionali offrono rendimenti sempre più incerti e risicati, E questo sia per investire le proprie riserve tecniche sia eventualmente per offrire ai propri clienti prodotti di investimento alternativi, a più alta performance e più bassa volatilità. Una ricerca che però spesso si scontra con la normativa di vigilanza, che per questi investimenti in genere impone accantonamenti di capitale piuttosto onerosi, sebbene poco meno di un anno fa siano entrate in vigore delle modifiche alla direttiva europea Solvency II, che hanno già ridotto in maniera importante i pesi assegnati a questo tipo di
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Fonti della raccolta dei fondi di private equity e venture capital italiani
investimenti. Ciò detto, ancora non basta per liberare davvero quella che è una mole enorme di capitali che potrebbe andare in maniera massiccia a finanziare l’economia reale, in un momento in cui questo servirebbe più che mai. Entro fine anno è prevista un’ulteriore nuova revisione della normativa e gli addetti ai lavori si aspettano un passo in più a favore degli alternativi.
Il tema è quindi molto caldo e non a caso ha catalizzato gran parte del dibattito tra addetti ai lavori che si è tenuto online lo scorso 23 giugno, in occasione del Caffé di BeBeez private capital e assicurazioni (si veda qui il video del Caffé).
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Fonti della raccolta dei fondi di private debt italiani
Un dibattito che è stato riassunto a grandi linee da MF Milano Finanza sabato 27 giugno e che riproponiamo qui in versione più ampia.
I dati AIFI-Kpmg indicano che nel 2019 il contributo offerto alla raccolta dei fondi di private equity e venture capital italiani da parte delle assicurazioni è diminuito dal 15,5% al 6,7% del totale della raccolta (si veda altro articolo di BeBeez). Peraltro sempre lo scorso anno è diminuito anche il contributo di fondi pensione e casse di previdenza (al 23,6% dal 29,4%) e quello delle banche (dal 13,7% al 6,7%), mentre è aumentato il contributo di settore pubblico e fondi istituzionali (dal 12,5% al 22,2% ), di investitori individuali e family office (dal 12,5% al 20,6% ) e di fondi di fondi (dal 9,1% al 13%).
A livello europeo, le statistiche 2019 dell’associazione Invest in Europe segnalano che sul totale dei 109 miliardi di euro raccolti (+6% dal 2018) da un totale di 578 fondi, il contributo delle assicurazioni è solo dell’11%, in linea con l’anno prima, anche se su un trend gradualmente crescente. A fare la parte del leone a livello europeo sono invece i fondi pensione, con un contributo del 29%, sebbene in leggero calo rispetto all’anno prima.
I dati AIFI-PwC indicano che nel 2019 il contributo offerto alla raccolta dei fondi di private equity e venture capital italiani da parte delle assicurazioni è diminuito dal 15,5% al 6,7% del totale della raccolta (si veda altro articolo di BeBeez). Peraltro sempre lo scorso anno è diminuito anche il contributo di fondi pensione e casse di previdenza (al 23,6% dal 29,4%) e quello delle banche (dal 13,7% al 6,7%), mentre è aumentato il contributo di settore pubblico e fondi istituzionali (dal 12,5% al 22,2% ), di investitori individuali e family office (dal 12,5% al 20,6% ) e di fondi di fondi (dal 9,1% al 13%). Le statistiche potrebbero migliorare almeno per l’Italia quest’anno, visto che è decollato il fondo infrastrutture voluto da Ania insieme a F2i sgr, che ha annunciato un primo closing a 320 milioni lo scorso febbraio e ne prevede un secondo entro fine anno, con un target finale di 500 milioni (si veda altro articolo di BeBeez). Quanto al private debt, i dati AIFI-Deloitte per il 2019 indicano un contributo delle assicurazioni per solo il 6,4%, con il contributo principale (27,2%) che è stato invece dei fondi di fondi (si veda altro articolo di BeBeez).
Dietro a questa carenza di investimenti, si diceva, c’è in parte il fatto che la normativa di vigilanza impone delle considerazioni di confronto tra rendimento atteso e costo in termini di capitale di vigilanza che deve essere accantonato. Ora, si diceva, lo scorso anno il Regolamento delegato della Commissione Ue 981/2019 ha già modificato in senso favorevole le norme sugli investimenti in private equity. In particolare, si legge nel regolamento, “gli investimenti diretti degli assicuratori in strumenti di capitale non quotati possono contribuire al conseguimento dell’obiettivo dell’Unione di una crescita sostenibile a lungo termine e dovrebbero pertanto essere agevolati. Nel calcolare il requisito patrimoniale per il rischio azionario secondo la formula standard, i portafogli di investimenti in strumenti di capitale non quotati di alta qualità dovrebbero pertanto poter beneficiare dello stesso trattamento degli strumenti di capitale quotati in mercati regolamentati. È opportuno stabilire criteri per garantire che un portafoglio di strumenti di capitale non quotati di elevata qualità presenti un rischio sistematico sufficientemente modesto”. E ancora: “Gli assicuratori svolgono un ruolo importante in quanto investitori a lungo termine e gli investimenti in strumenti di capitale sono importanti per il finanziamento dell’economia reale. Gli investimenti a lungo termine in strumenti di capitale da parte delle imprese di assicurazione e di riassicurazione dovrebbero pertanto essere incoraggiati allineando il trattamento degli investimenti a lungo termine in strumenti di capitale e degli investimenti strategici in strumenti di capitale in sede di calcolo del requisito patrimoniale di solvibilità secondo la formula standard comprese le matrici di correlazione”.
Detto questo, resta vero che gli investimenti alternativi hanno ancora un costo importante per le assicurazioni, a parte alcune eccezioni. Per esempio, un fondo dedicato all’acquisto di fatture commerciali è per definizione di poco impatto in termini di Solvency 2, soprattutto perché ha una duration limitata e un portafoglio sottostante molto diversificato. “L’investimento nel Supply Chain Fund è assimilabile a quello in un prodotto obbligazionario a brevissimo termine, con un merito di credito elevato e un rendimento obiettivo lordo pari al tasso euribor 3 mesi più 300 punti base (200 punti base netto, ndr), con un profilo rischio-rendimento interessante in particolare per le compagnie di assicurazione, tenuto anche conto del basso tasso di assorbimento di capitale di vigilanza richiesto dalla direttiva Ue Solvency II per questo tipo di investimenti”, ha infatti commentato Alberico Potenza, managing director di Groupama am sgr, in occasione del Caffé di BeBeez (si veda altro articolo di BeBeez). Proprio quel fondo lo scorso anno ha incassato la fiducia di tre compagnie assicurative e cioé Cattolica Assicurazioni, HDI Assicurazioni (Gruppo Talanx) e ITAS Mutua oltre che del fondo pensione Previbank, per un totale di circa 20 milioni di euro, a cui si è aggiunto il rinnovo dell’impegno del gruppo assicurativo Groupama per 40 milioni.
Lo stesso concetto è stato sottolineato chiaramente in occasione del Caffé anche da Andrea Milanesi, group chief investment officer ITAS Assicurazioni, che ha detto: “In media il capitale per un investimento di questo tipo costa il 6-7% perché assorbe poco e rende euribor più 2% ed è quindi vincente se si fa un confronto con fondo cash che ha assorbe il 3% ma ha un rendimento negativo. Inoltre si tratta di uno strumento che offre una grande diversificazione di portafoglio e ha una j-curve praticamente inesistente (cioé il periodo in cui i flussi in uscita da parte degli investitori sono superiori a quelli in entrata, ndr), perché i crediti in portafoglio hanno duration molto bassa”. Non solo. Ha aggiunto Milanesi: “In generale il direct lending e il private debt permettono all’investitore di conoscere a priori le caratteristiche essenziali dell’investimento: cedola, scadenza ed eventuali covenant e i gestori possono costruire un prodotto funzionale al tipo di investitore. Per contro, se si fa un confronto con il private equity, questo è un asset con rendimenti attesi certamente più elevati, ma i flussi di ritorno non sono coordinati con quelli di un’assicurazione ed è un investimento con duration molto più lunga, quindi con assorbimento del capitale molto più elevato”.
Simona Zenobi, responsabile investimenti Groupama Assicurazioni, a sua volta ha ricordato che un fondo come il Supply Chain pesa molto poco in termini Solvency e che “la vera difficoltà è stata definire l’esatto ammontare di asset illiquidi in cui investire il portfoglio delle nostre quattro gestioni separate che hanno profili del passivo molto diversi tra loro. Per decidere quando e quanto assegnare a ciascuna gestione ci siamo concentrati da un lato sull’assorbimento di capitale e dell’altro sul valore di indicatori di liquidità che abbiamo sviluppato ad hoc con il nostro modello interno. Infine quando investiamo in private capital conduciamo una approfondita due diligence. In questo modo abbiamo investito in private debt, real estate infrastrutture e ultimamente anche private equity”.
Insomma, il private debt sempre l’asset preferito dalle assicurazioni, ma questo non significa che le assicurazioni non investono in capitale di rischio. Emilio Pastore, head finance and treasury di HDI Assicurazioni (Talanx Group), per esempio, ha detto che: “Già da tempo investiano in private capital e addirittura in venture capital, che certo costa in termini di solvency ma è unnn investimento nell’innovazione, nell’economia reale del domani. Per questo abbiamo investito nei fondi di Innogest, United Ventures, Sella e Primomiglio, mentre con il fondo pensione abbiamo investito nelle società di venture capital quotate e cioé in LVentures, H-Farm e Digital Magics“. Quanto agli altri investimenti in capital private, nel portafoglio di HDIA ci sono fondi di private debt, di real estate e infrastrutture. A quest’ultimo proposito, ha ricordato Pastore: “Abbiamo investito nella seconda fase di raccolta del fondo Ania-F2i”. Inoltre HDIA ha investito anche direttamente nell’equity di società che sviluppano impianti di produzione di energia eolica e fotovoltaica.
Anche Silvana Chilelli, amministratore delegato di Eurizon Capital Real Asset sgr, ha sottolineato il fatto che in un portafoglio di investimenti di un’assicurazione debba comunque esserci spazio per l’equity non quotato: “L’equity non può mancare. E infatti di recente il legislatore ha fatto uno sforzo per avvicinare le assicurazioni a questa asset class, così ora il peso da assegnare è sceso dal 49% al 39%”. Per quanto riguarda l’sgr, ha ricordato Chilelli, è nata dalla combinazione delle esperienze negli asset alternativi di Intesa Sanpaolo Vita e di Eurizon Capital sgr: “A oggi abbiamo 3,6 miliardi di asset in gestione e un team dedicato di 10 persone che gestisce gli investimenti alternativi della divisione insurance, ma raccoglie anche gli investimenti del private banking del gruppo e anche di clienti non captive (si veda altro articolo di BeBeez, ndr). Con il nostro team selezioniamo i migliori gestori per le diverse asset class a livello globale, ma conduciamo anche coinvestimenti. Quello che importa è che si crei una partnership di lungo periodo con i gestori, perchè, più che la fase della selezione, è difficile quella successiva e cioé la gestione dei richiami di capitale e il monitoraggio dell’investimento, il che appunto richiede un rapporto stretto e di fiducia con i gestori”. Poi, certo, ha aggiunto Chilelli, “è vero che sul fronte Solvency 2 il private debt è favorito, almeno per il nostro gruppo. Intesa vita non ha un suo modello interno e quindi per il calcolo del capitale di vigilanza da allocare a fronte degli investimenti ci affidiamo al modello standard, che appunto assegna un peso relativamente basso al private debt. E questa è un’asset class che noi consideriamo su tutte le verticali, compreso il debito real estate e il debito infrastrutturale. Tutte attività che si possono impacchettare e trasformare in prodotti di investimento per la clientela”.
Tornando al tema dell’equity, Massimo di Tria, chief investment officer di Cattolica Assicurazioni, ha sottolineato che di questi tempi “sono sempre di più le società quotate sane che si delistano per avere più flessibilità di governance. Ma se una parte sana e performante dell’economia diventa privata, allora a maggior ragione noi come investitori non possiamo ignorarla e dobbiamo inserire il private capital in portafoglio”. E, quanto al peso di Solvency 2, di Tria ha poi portato l’attenzione su un aspetto più specifico: “Tutti si focalizzano sull’assorbimento del capitale, ma in realtà quella è solo la parte minima del problema. Il capitale assorbito, che costituisce il denominatore del solvency ratio, è in media del 7-10% per i portafogli assicurativi, ma quello che conta è la volatilità dei fondi propri, che sono al numeratore. Più è alta la volatilità dei fondi propri e più l‘intero solvency ratio è instabile. Quindi paradossalmente su questo fronte la normativa avvantaggia i private market. Abbiamo visto che questa crisi ha creato grandi movimenti nei prezzi dei titoli quotati nel breve periodo, ripercuotendosi quindi sui solvency ratio delle compagnie. Ma per una realtà che investe come noi in ottica di lungo periodo e che per normativa deve usare un approccio contabile per la determinazione dei rendimenti delle gestioni separate, non ha molto senso calcolare la solvency con un approccio mark-to-market su tutti i titoli. In particolare, secondo me, i titoli obbligazionari investment grade quotati o no dovrebbero avere un trattamento diverso dal punto di vista di Solvency 2, cioè la loro volatilità dovrebbe incidere meno di quella dell’equity o di altri attivi simili perché una perdita in conto capitale non dà nessuna garanzia di recupero al contrario delle obbligazioni che hanno un rendimento a scadenza pre-determinato”.
Detto questo, quali strade dovrebbe seguire una sgr che voglia proporre oggi un investimento di private capital a un’assicurazione? “Prima di tutto dovrebbero conoscere bene la normativa Solvency 2. Dovrebbero inoltre proporre nuove idee, per esempio secondo me una nuova asset class potenzialmente interessante è quella dei crediti fiscali, ma bisognerà capire quanto capitale assorbiranno. In termini più ampi, poi, mi aspetto che il rispetto dei criteri ESG possa diventare una caratteristica cruciale per i fondi per poter risultare attraenti per le assicurazioni. E’ infatti in corso un dibattito a livello europeo sull’opportunità di riconoscere il minore rischio nel lungo periodo per gli investimenti a impatto sociale e ambientale. Per esempio, come Cattolica investiamo in RSA e questo investimento oggi ha lo stesso peso in termini di capitale di un qualsiasi altro investimento real estate. Un altro esempio sono i nostri investimenti in energie rinnovabili, che paradossalmente hanno lo stesso assorbimento di capitale che avrebbero investimenti in impianti di produzione di energia con esternalità negative sull‘ambiente. Penso che le nuove norme andranno in quella direzione”.